Opening: Thursday, October 20, 2016
October 20, 2016 - December 11, 2016
curated by Silvia Cirelli
From October 20th to December 11, 2016, the Officine dell'Immagine gallery in Milan is hosting the first solo show in Italy of the Franco-Algerian artist Halida Boughriet (Lens, 1980), one of the most creative talents on the emerging art scene. Curated by Silvia Cirelli, the exhibition Pandora's Box gathers together a wide selection of works never before exhibited in Italy, in an attempt to explore the versatility of a young performer who continues to surprise us with her polished, incisive aesthetics, intensely devoted to the difficult dynamics of the internal universe.
Known internationally for exhibitions at the Pompidou Centre or the Institut du Monde Arabe in Paris, Halida Boughriet likes to deal with issues relating to socio-cultural problems, identity, behaviour and geopolitics, not only those affecting the African world - with which she has close ties - but also those concerning current cultural history in general. Issues which are now, more than ever, causing instability, as a result of a sense of rootlessness, a lack of interpersonal communication and the need to "belong."
Using the body as the fundamental vehicle of expression, the artist stands out for her clear preference for particular forms of communication, which makes the performance the focal point. Reproduced with a series of photos, or simply documented on video, the performances presented in her works - which sometimes feature Boughriet herself - capture, according to the artist, the true power of emotional ambiguity. In a delicate balance, a mixture of beauty and suffering, flight and constraint, this young performer exposes the tensions of human behaviour, revealing its underlying fragility.
The central core of the exhibition is the series of photos Pandore (2014), which is also the inspiration for the title of the exhibition. Elegant interiors of Flemish inspiration, here reinterpreted in a contemporary way, reveal incredible mise en scènes in which a group of boys from the Parisian suburbs are the main protagonists. The sharp contrast between the sophistication of the immaculate setting and the incongruity of its visitors is further accentuated by their unnatural poses, clearly forcibly placed in a context where they do not belong.
The meticulous attention to staging detail is also seen in the series Corps de Masse (2013-2014), set in the enchanting rooms of the Museum of Art and History in Saint-Denis, France. The bodies of those in the shots - lit by an imaginative, intimate natural light to maintain their lyricism - move slowly and then unite into harmonious poses. The poses evoke the subjects of the paintings on display in the Museum's collection. Topics such as cultural memory and the importance of interpersonal cohesion are also central in the recent 2016 project Réflexion(s). This is a reinterpretation of the theory of the philosopher Leibniz which considers reality to be a mixture of perceptions - and indeed reflections - that must fuse together to create universal harmony. In this context, in Reflexion(s) the artist uses a mirror to involve the observer in the view of which "the other" is the protagonist: what the spectator sees is actually the reflection of what the photograph's subject is contemplating.
The exhibition continues with the video Autoportrait, in which the eyes of Boughriet herself literally become the mirror of painful collective memories; there is an incessant flow of images of war, destruction and suffering, which never seems to subside. The artist's body also gives "voice" to an unspoken anguish in the touching series Cri silencieux (2016) where the power of her silent cry, in the centre of the Square of Martyrs in Beirut, pushes the narrative to a really tense, perceptual level, making human emotions seem palpable.
For the opening, the gallery will host the performance Sans Titre (Afrique), which Halida Boughriet also staged at the Centre Pompidou in 2014. A sound composition created by the artist, based on music from Wagner's The Twilight of the Gods, Siegfried's Funeral March, will accompany the dancer Olga Totukhova as she dances on a carpet representing the map of Africa, particularly the continent's "hot spots"; those places in which there are ongoing wars and conflicts.
HALIDA BOUGHRIET E LA SUA AFRICA By Bruno Mancini
LA SUA AFRICA TRA NOSTALGIA E DOLORE - A MILANO presso Officine dell’Immagine
Stati d’animo, emozioni legate alla sua terra, l’Africa a quelle zone abitate da povertà, guerre dove a regnare sono paura, angoscia e disperazione, sono restituite sotto un profilo nuovo, desueto attraverso il percorso artistico di Halida Boughriet (Lens, 1980), artista franco-algerina. voce emergente tra le più interessanti del panorama dell’arte contemporanea.
Attenta e ricercata sul piano stilistico ed espressivo, Halida Boughriet, che ha esposto con successo in prestigiosi spazi come il Centre Pompidou e l’Institut du Monde Arabe di Parigi, da voce alle emozioni di un tempo passato e presente cui è legata restituendole con una nuova prospettiva.
Al centro del suo discorso artistico che unisce fotografia, performance e video sono presenti aspetti legati a problemi socioculturali, identitari, comportamentali e geopolitici legati alla sua terra, l’Africa, ma anche in generale alla realtà socio culturale di oggi, dove sempre più si coglie l’incomunicabilità tra individui e dove vige un profondo senso di sradicamento, nonché il conseguente bisogno di “appartenere” e sentirsi ascoltati. Questi aspetti e molto altro accompagnano le immagini semplici, ma complesse, incisive ed eloquenti della mostra a lei dedicata che inaugura a Milano il 20 ottobre 2016 presso la Galleria Officine dell’Immagine.
L’esposizione Halida Boughriet. Pandora’s Box a cura di Silvia Cirelli, prima personale presentata in Italia dall’artista, riunisce un’ampia selezione di opere mai esposte in precedenza che colpiscono gli occhi e la mente del visitatore sia per un’estetica attenta e ricercata nei dettagli, sia per la capacità di trasmettere il lato più fragile di una realtà umana di cui affiorano silenziose paure, incertezze e quel filo di speranza che forse ancora resiste.
Significative sono le azioni performative che attraversano diversi momenti della sua opera e di cui talvolta è lei stessa protagonista. Azioni performative espresse nelle serie fotografiche o documentate su supporto video che catturano perché immettono in un contesto che è ad un tempo naturale e artificiale, come sospeso tra visione e azione, sogno e realtà. Attraverso un linguaggio versatile e originale Halida Boughriet fa affiorare le emozioni e le tensioni di un’umanità fragile e lesa dove affiorano bellezza e sofferenza, evasione e costrizione in un equilibrio precario. Lo si evince in modo particolare nella serie fotografica Pandora (2014) da cui deriva il titolo della mostra: in Pandora gli ambienti interni sono descritti con minuziosi dettagli, eleganti e raffinati che rimandano al genere fiammingo rivisitato in chiave contemporanea. Ambienti che diventano scenario inverosimile di sguardi, gesti e azioni di ragazzini dei sobborghi di Parigi ad indicare un contrasto tra un ambiente ricercato e chi vi è collocato, quasi a voler dichiarare l’estraneità di questi ragazzini ad un contesto distante dal loro vissuto cui faticano ad adattarsi come mostrano i loro gesti per nulla spontanei e naturali.
Accanto a Pandora è la serie Corps de Masse (2013-2014) con altrettanta attenzione ai dettagli scenici che danno risalto alle suggestive sale del Museo d’Arte e di Storia di Saint-Denis in Francia. La corporeità è espressa sia dalla presenza dei corpi dei personaggi fotografati e accompagnati da una luce naturale, sia dal loro emulare unendosi agli altri le pose dei soggetti dei dipinti esposti nel museo.
Emerge il rapporto con il passato e l’importanza della memoria che porta con se nostalgie e verità, e allo stesso tempo il bisogno di costruire legami tra persone; tematiche queste che si riscontrano anche nel più recente lavoro Réflexion(s) del 2016, in cui viene riletta la teoria di Leibniz secondo cui la realtà è considerata come una miscela di percezioni – e riflessioni, appunto – che devono fondersi insieme per un’armonia universale. Per questo lavoro viene utilizzato uno specchio per far provare allo spettatore la percezione che investe l’altro: lo spettatore infatti vede il riflesso di quanto viene contemplato dal soggetto della fotografia.
Di guerra, sofferenza e distruzione da testimonianza il video Autoportrait, attraverso gli occhi dell’artista che si fa portavoce di vissuti che restano nella memoria. La sofferenza è centrale anche nella serie Cri silencieux (2016) in cui il corpo dell’artista rivela un tormento inconfessato attraverso il suo grido silenzioso nel centro della Piazza dei Martiri di Beirut che diventa grido universale di un ‘umanità sospesa nell’attesa di un possibile cambiamento.
A proposito di immagini performative dove il corpo è protagonista, durante l’inaugurazione della personale di Halida Boughriet non poteva mancare la performance Sans Titre (Afrique), presentata dall’artista nel 2014 anche al Centre Pompidou. Si tratta di un componimento sonoro da lei realizzato sulle note de “Il Crepuscolo degli Dei!, “La marcia funebre di Sigfrido” di Wagner che farà da accompagnamento alla ballerina Olga Totukhova nella sua danza su un tappeto dove è ripresa la mappa dell’Africa, compresi quei luoghi dove guerre e conflitti sono ancora in atto.
Silvana Lazzarino
Halida Boughriet con Pandora’s Box alle Officine dell’Immagine, dal 20 ottobre all’11 dicembre 2016.
Negli spazi della galleria Officine dell’Immagine, in zona Porta Romana a Milano, è stata inaugurata la personale dell’artista franco-algerina Halida Boughriet dal titolo Pandora’s Box.
Per questa artista un passato di mostre importanti sul territorio francese, tra cui spiccano progetti e collettive all’interno di istituzioni autorevoli come il Centre Pompidou ma soprattutto la partecipazione a una mostra sorprendente come Le Corps Découvert all’Institut du Monde Arabe di Parigi, mostra che, coraggiosamente, si prefiggeva l’obiettivo di mostrare la rottura del tabù del nudo e dell’ostentazione del corpo nella cultura orientale attraverso il lavoro di alcuni artisti. Lì Halida Boughriet presentò la serie Mémoires dans l’Oubli, fotografie di grandi dimensioni raffiguranti anziane donne algerine, vedove e reduci della guerra franco-algerina, in posa come modelli dei grandi quadri di tema orientale di Delacroix e Ingres: le ultime testimoni del contrasto tra Algeria indipendentista e Francia coloniale trasformate in tòpoi della storia dell’arte occidentale.
Qui alle Officine il titolo della mostra deriva da un’altra serie dell’artista, Pandore, iniziata nel 2014. In queste ‘messe in scena’ che ricordano la pittura rinascimentale e interni d’ispirazione fiamminga sono protagonisti alcuni ragazzini dei sobborghi parigini. Anche qui l’ispirazione derivata dalla storia dell’arte marca un netto contrasto fra la ricercatezza dell’ambientazione e l’estraneità dei suoi ospiti, che viene accentuata dalle loro innaturali pose, richiamando così un tema caro all’artista, ovvero lo straniamento derivato dallo sradicamento culturale e identitario dei francesi di origine araba e africana.
Oltre ad ospitare altri lavori, in occasione dell’inaugurazione della mostra è stata riproposta la performance Sans Titre (Afrique), già al Centre Pompidou nel 2014: sulle note di un commento musicale ispirato al Götterdämmerung di Wagner (nello specifico alla marcia funebre per Sigfrido del terzo Atto) la ballerina Olga Totukhova ha danzato su un tappeto raffigurante la mappa dell’Africa e le “zone calde” del continente, luoghi in cui sono tutt’ora in atto guerre e conflitti. Arte e problemi dell’attualità.
Autore Tommaso Sante Monorchio
http://www.artslife.com/2016/
Richard Taittinger Gallery: Guess Who's Coming to Dinner?
BY Amy Lin
Questioning Bias Trough Guess Who’s Coming to Dinner? exhibition
Although the show borrowed its title from the classic 1967 movie, its symbolism is in closer connection to previously quoted Chika Okeke-Agulu observation. The goal of the exhibition is not only to present works of African artists but also to question stereotypes often connected to them. In the global art market African art is usually seen through the lenses of identity politics. Guess Who’s Coming to Dinner? group show aims to change bias and fixed assumptions about African art by presenting their intimate artworks with the international subtext. Guess Who’s Coming to Dinner? celebrates the raising impact of African artist in the art world. The influence was particularly visible at this year’s 56th edition of Venice Biennale. Not only has the Biennale appointed a Nigerian-born Okwui Enwezor as its director, but it also featured an impressive number of African artists
Intimate Artworks at Richard Taittinger Gallery in New York
Guess Who’s Coming to Dinner? group show will present versatile artworks but contemporary photography seem to be dominating the show. Ethiopian photographer Aida Muluneh will exhibit the works from her The Wolf You Feed, series that deals with African cultural heritage, rituals and ceremonies but also with issues such as exile, loss and disillusionment. Algerian artist Amina Menia has been traveling her homeland taking pictures of public sculptures since 2009. Her Chrysanthèmes Series of photographs is focused on commemorative stelae and monuments dedicated to martyrs. The series is questioning memories attached to certain places and sites. Another Algerian artist, Halida Boughriet will exhibit a series of her acclaimed Pandora images. For this series, Halida Boughriet took pictures of children in their home while exploring the relationships that human bodies maintain with the space they live in. Guess Who’s Coming to Dinner? exhibition will also include a series of unusual family portraits by Amalia Ramanankirahina.
By Julie Baumgardner
Jul 21st, 2015 1:21 am
That “Contemporary African Art” is a collecting category encompassing 54 countries, 1.1 billion people, over 2,000 spoken languages, multiple thousands of native tribes, and near equally split between the traditions of Islam and Christianity, surely presents a slew of problematics. Africa’s unity lies more in outsiders’ perceptions of geographic continuity. However, contemporary Africa, in all its pluralism, is also united by a seemingly unexpected entity (unexpected especially to those outsiders): art.
The continent is brimming with artists, and not just El Anatsui, who for the last 40 years mostly has been the only artist that Westerners can cite as the African artist from the second-largest continent. While Anatsui, wonderful in so many ways, couldn’t be a better-suited ambassador, his bottle-capped sculptural murals illustrate, as the Nigerian proverb sums up, that “a single man can not build a house.” The house is, instead, a homegrown network of engaged and dynamic art practices, which have been rigorously developing without the aid of traditional art world avenues: collectors, galleries, and art schools. (Though, those avenues are, for the most part, what is leading the West to acknowledge Africa’s scene.)
Nigerian-born artist, art historian, and curator Ugochukwu-Smooth C. Nzewi knows the landscape well and has devised an impressive survey of it at New York’s Richard Taittinger Gallery. “One wonders what exactly is African art?” says Smooth, as he is known personally and professionally. “When you walk into this space none of the works look like what people perceive African art to be.” The curator explains that, generally, there’s an expectation “that contemporary artists of Africa should at least convey a sense of the continent.” Titled “Guess Who’s Coming to Dinner?” the show takes its name from the eponymous 1967 Sidney Poitier film and hinges upon a cultural critique by famed Princeton art historian Chika Okeke-Agulu, who wrote, “Folks can’t seem to come to terms with the fact that African artists have now taken and secured their seat at the dinner table, invited or not!”
To skeptics and insiders, Okeke-Agulu’s observation may read as hyperbole. But in fact, it’s only been in the last few years that the West has taken stock of the African art scene on any calculable scale. Take Bonhams in London, still the only major auction house to have a dedicated contemporary African arts sale, having consecrated the category in 2007. (With gross 2013–2014 sales generating a mere £1.6 million, it’s still a fledgling sector, and 50% of the buyers are from the African continent.) Likewise, in the primary market sector, 1:54 is the only dedicated African art fair in operation, with a two-year-old stint in London and a first spin in New York this past May.
Smooth’s home country, Nigeria, has the continent’s strongest collector base and wealthiest patrons. With South Africa, it comprises half of Africa’s billionaires. Where there is money, there is art. “When there’s an interest at home, it affects the value,” adds Smooth. And make no mistake, Angola, which won the 2013 Venice Biennale Golden Lion, essentially became discovered as an art town once the oil boom hit and local artists like Nástio Mosquito found Western collectors. “Obviously there’s a massive interest in contemporary African art, or artists of African descent, because of the way of the market works,” continues Smooth. “I, in particular, refrain from the rise of the ‘African artist,’ but it’s a reality, there is a rise in interest.”
At 36, Smooth’s own career reflects the peripatetic and diasporic nature of the African arts scene. He grew up in Enugu, apprenticed under Anatsui, studied in South Africa and Atlanta, and has continued his scholarship and curatorial duties at Dartmouth where he’s the curator of African art at the universities Hood Museum. The crux of the paradox of contemporary African art is such: globalization versus ghettoization, a word “we want to refrain from using and that’s the basis of this exhibit. It’s the ‘burden of Africanness,’ which is what we call ghettoization,” he explains. “You don’t find markers that are “African” but there are mediated tendencies. You have to look for tropes that play in the market. The trope, or the burden, of Africanness is what collectors are looking for,” he continues. To a simple eye (or mind) those tropes are the familiar tribal masks, costumes, and other postcard-variety observations about “native” Africa.
“Guess Who’s Coming to Dinner?” exposes a current trend across much of African contemporary, works that “address those contexts of familiarity but at the same time transcend and consider the universal,” explains the curator. In opposition to the object- and photo-based works often seen on the auction block, painting is the show’s primary medium. Included are the psychologically complex oil paintings of Kenya-based Beatrice Wanjiku and Ivory Coast-born, Paris-based Gopal Dagnogo and the searing mixed-media collage of NGO logos by Kenya-based Sam Hopkins. There are also stunning photographic collages by Madagascar-born Amalia Ramanankirahina and haunting politically charged photographs by Algerian Amina Menia.
The themes posited in these works reference anchors of African identity but also take on more human and art historical questions as well. While it’s important that these artists are African, their works wrestle with humanity. “There is tendency to look at the work of Jeff Koons as international, but his work is American,” says Smooth, as a contrast. “What he reflects in his work is American pop culture. So why would one situate Koons in a universalist practice and then try to fit an African artist in a box? It’s simply wrong.” Smooth then added an anecdote, which in essence sums up the status of African arts at the moment: “I remember a conversation Aubrey Williams had with Picasso, who looked at Guyanese Williams and said, ‘you have a fine African head.’ It tells you that there’s a chasm.”
—Julie Baumgardner
Peut-être est-ce d’abord un seul corps monstrueux, hydre dotée de plusieurs têtes et de membres innombrables que je vois là, dans cette pénombre, sur ce sol de lattes de bois clair ou de carreaux de faïence rouge, baigné de cette lumière latérale. Peut-être est-ce la fusion de plusieurs corps, ainsi jetés au sol les uns sur les autres, comme endormis, stoppés net, ou peut-être est-ce un charnier, certes incongru dans ces pièces étroites et ornées de tableaux, mais, au premier abord, je ne sais trop, tentant d’appréhender cette masse, ces « corps de masse », d’y trouver un sens, un point d’entrée.
Puis, peu à peu, dans un bruissement de tissus qui frottent doucement les uns contre les autres, dans une infinie lenteur (qui évoque pour moi une chorégraphie de Myriam Gourfink), l’ensemble se défait, chaque corps individuel apparaît, différent des autres, homme, femme, enfant, adolescent, et en même temps si semblable aux autres, par ses habits bien sûr, mais aussi par une proximité, une parenté peut-être héritée de cette fusion initiale. Peu à peu, la chimère d’origine donne naissance à des corps qui se détachent, qui s’éloignent : l’homme de sa compagne, le bébé de sa mère, l’ami de son ami. Chacun, doucement, lentement, reprend son individualité, chacun s’étire sur le sol, chacun devient unique, un peu comme dans ce spectacle des Gens d’Uterpan où, à la fin, le crâne daliesque se défaisait en plusieurs corps nus. L’amour, l’amitié, la famille se délitent, chacun devient solitaire, irrémédiablement seul.
Halida Boughriet (que j’avais découverte à Montrouge), dont le travail oscille entre un regard politique, social, historique très affirmé (comme dans ces beaux portraits d’anciennes combattantes algériennes) et une attention essentielle à la forme, à l’harmonie, à l’esthétique (comme dans sa vidéo de naissance des perles), a tourné ces vidéos et fait ces photographies dans un ancien couvent de Carmélites, aujourd’hui le Musée d’art et d’histoire de Saint-Denis, où elle a invité des habitants de la ville à se retrouver ainsi et à vivre ce moment de rapprochement et de dispersion, le tout avec un minimum de direction de sa part. Son travail, montré au MAC/VAL jusqu’au 21 septembre, s’inscrit clairement dans l’histoire de la peinture : tonalités, lumières, textures, postures des corps ramènent aux caravagesques ou aux baroques. Aux murs, se devinent, coupées, décadrées, les peintures du Musée. Et les photographies de grand format présentées ici sont quasiment des tableaux, cependant que la vidéo se fracture sur un écran en trois profondeurs.
Je lisais, par hasard, ce jour là, le passionnant livre d’entretiens de l’historien israélien Zeev Sternhell avec Nicolas Weill : Sternhell y explique (plus succinctement que dans ses livres) la manière dont les Lumières (« franco-kantiennes » comme il dit) ont instauré la primauté de l’individu sur le corps social : avec les Lumières, l’individu est désormais au centre du monde, et il est le créateur de sa propre histoire, de sa société et de son État, et non l’inverse comme ce fut le cas sous la Royauté, sous les fascismes ou en Israël, systèmes « anti-Lumières » dans lesquels ce qui sépare, ce qui distingue est l’essentiel et forme la base d’une communauté qui s’impose aux individus (raccourci très, trop rapide, mais ce n’est pas le lieu ici de faire un cours de philosophie politique, reportez vous à ses livres). Et, peut-être, me suis-je dit ce jour-là, la pièce de Halida Boughriet est-elle en phase avec ces idées-ci, non point constat un peu amer de solitude, mais affirmation joyeuse d’autonomie, d’individualité. Et peut-être n’est-ce pas totalement un hasard si, dans ce musée dionysien, à quelques mètres des cellules où ces photos ont été faites, est conservé le manuscrit de Liberté, de Paul Éluard.
17 juin 2014, par Lunettes Rouges
Maux des mots, 2009
Diptyque photographique,
impression directe encre UV sur dibond,
70 × 120 cm (chaque).
Collection MAC/VAL,
musée d’art contemporain
du Val-de-Marne
Photo © Jacques Faujour
Halida Boughriet est une jeune artiste française qui a déjà trouvé sa voie et profondément ancré son œuvre dans l’état du monde, ses moments autoritaires que sont les guerres, le politique ou la religion, et leur empreinte sur les individus. Ses origines algériennes l’ont fait se construire dans la richesse de plusieurs cultures. Sources d’observation et d’interrogation, celles-ci lui permettent aussi de relativiser chacune de leurs données, à travers des gestes poétiques sur la nature de ce qui fonde les rapports humains.
Dès sa sortie des Beaux-Arts à Paris, puis à New York où elle étudie à la School of Visual Art jusqu’en 2005, son regard est photographique et vidéaste. Il saisit les hommes dans leur milieu, souvent urbain, révélant leurs fragilités, leurs doutes. Les relations ambivalentes, voire impossibles, entre les cultures du Nord et du Sud, au cœur de la vidéo Action (2003) que vient d’acquérir le Centre Pompidou, traduisent ces différences qui font que le toucher, geste tendu vers une main à peine effleurée, provoque une palette de réactions, de la plus violente à la plus retenue, en passant par tant d’indifférence.
Plus ou moins frontalement, ce sont les conflits et leurs cicatrices qu’Halida Boughriet traque dans ses résidences (Bosnie, Afrique, plus récemment Algérie), enregistrant la vie qui résiste, comme dans Dream City (2008), où les jeux d’enfants « repoussent » sur les terres brûlées, ou dans La Boîte à musique (2009), qui associe les témoignages des enfants et victimes de guerre à « une » image de l’enfance. Interrogeant la notion de « péché » à travers les cultures, l’artiste a commandé des textes à plusieurs écrivains et slameurs, textes dont la beauté souvent fulgurante oscille entre cette notion judéo-chrétienne et le concept de culpabilité.
Pendant sa résidence à Jijel en Algérie, elle réalise Maux des mots, inscrivant ces textes de souvenirs sur les dos d’un homme et d’une femme, à l’encre rouge. Telle l’histoire, l’encre est délébile et s’efface lentement dans le ressac de la mer où sont allongés les corps. Halida Boughriet confère aux images qui composent ce diptyque la magnificence orientale des icônes et un caractère sacré par le texte qui court et disparaît, à l’instar de la mémoire qui flanche et inéluctablement s’efface. Cetteœuvre en devenir brille de mille promesses grâce à la profonde humanité du regard d’Halida Boughriet comme à la liberté de ses points de vue et prises de position, toujours en empathie avec ceux que le monde marque au fer rouge.
A.F. Alexia Fabre- MAC/VAL
Dans l’interprétation artistique 50 ans de réflexion, les oeuvres de Halida Boughriet occupent tout l’espace d’exposition du rez-de-chaussée. C’est la première exposition personnelle de cette artiste qui tisse une oeuvre militante et toute en finesse, à découvrir absolument ! Deux grandes photographies, tirées de son travail Mémoire de l’oubli - présentées récemment à l’IMA (Le corps découvert) – accueillent le spectateur. Chacune immortalise une figure féminine de la résistance algérienne, en costume traditionnel, allongée dans un salon traditionnel oriental. Dans cette représentation ironique et lascive, elles nous fixent, telles des odalisques d’un autre âge, éternelles icônes d’un passé fantasmé. Et pourtant ce regard bien perçant qui scrute l’objectif semble se jouer de cette forme de travestissement et affirmer une autre réalité, en disant la dureté des combats passés et à venir pour les femmes algériennes. Puis Territoire hybride “plonge le visiteur dans un contraste frappant entre les halls d’Alger et les halls d’Ile de France”. Regards croisés entre des entrées de riches immeubles haussmanniens vides et de sordides cages d’escaliers HLM, on ne sait plus vraiment où l’on est.. Cette confusion règne également dans le mode de présentation très particulier de cette deuxième partie de l’exposition : Halida Boughriet a imaginé un dispositif ingénieux en présentant ses photographies suspendues dans l’espace. Elles s’animent comme par magie, en jouant avec les reflets des visiteurs glissant sur les grandes plaques de plexiglas, qui enserrent les tirages translucides. Composant avec la semi-obscurité naturelle des clichés, des tubes de néon posés au sol viennent également mettre en lumière et souligner ces espaces aux décors baroques et cérémonieux. Comment rajouter des fulgurances lumineuses à des photographies, sans effets spéciaux ni ajout numérique, il fallait oser… Et l’effet est envoutant !! Enfin dans une petite salle tendue de noir, Videobox, cinq courtes vidéos de Halida Bougrhiet viennent clore – et ouvrir – l’exposition sur des performances en pleine rue (Action, 2004), dans le métro (Les Illuminés, 2007), et présentent des montages son/image tout en paradoxes et oxymores… Le thème du nikhab (voile intégral) et du regard de l’autre, le désir du contact physique dans un lieu public pour les deux premières vidéos cités, la fermeture des frontières entre l’Europe et l’Afrique (Transit, 2011) et les frustrations qu’elles entrainent sont autant de sujets que la jeune artiste traite avec http://www.institut-cultures-islam.org/archiv/50-ans-reflexion/
Exposition du 27 mars au 26 août 2012
Institut du Monde Arabe (IMA), Paris
LIMA présente, du 6 mars au 24 juin 2012, une grande exposition dart moderne et contemporain sur le thème de la représentation du corps et du nu dans les arts visuels arabes. La représentation du corps dans les arts visuels arabes constitue une matière jusquici ignorée, une sorte de terra incognita pour le moins inexplorée. On aurait ainsi pu sattendre à ce que ces représentations nexistent pratiquement pas dans la peinture arabe ; or, à travers le corps, cest tout un pan méconnu dune riche iconographie qui vient à se découvrir. De la même manière quil sest pris naguère dun intérêt soudain pour les artistes chinois ou les artistes indiens, le monde de lart sest récemment tourné vers les créateurs arabes. Avec Le Corps Découvert, lIMA entend présenter à son public, une exposition qui, à travers ce thème ample, complexe et fondamental à la fois, embrasse tout un siècle de peinture arabe ou, plus exactement, de pratique des arts plastiques.
Artistes:
Sundus Abdul Hadi, Tamara Abdul Hadi, Adel Abidin, Inji Afflatoun, Aram Alban, Shadia Alem, Abdel Hadi Al- Gazzar, Sama Alshaibi, Mohand Amara, Ghada Amer, Mamdouh Ammar, Angelo, Antranik Anouchian, Asaad Arabi, Muhamad Arabi, Muhamad Muri Aref, George Awde, Armenak Azrouni, Dia Azzawi, Ismaïl Bahri, Baya, Farid Belkahia, Mahi Fouad Bellamine, Binebine, Zoulikha Bouabdallah, Meriem Bouderbala, Halida Boughriet, Nabil Boutros, Katia Boyadjian, Huguette Caland, Chaouki Choukini, Georges Daoud Corm Murad Daguestani, Kamel Dridi, Nermine El Ansari, Ibrahim El Dessouki, Zena El Khalil, Mohammad El Rawas, Adel El Siwi, Salah Enani, Touhami Ennadre, Tarik Essalhi, Rania Ezzat, Moustafa Farroukh, Sakher Farzat, César Gémayel, Gibran Khalil Gibran, Azza Hachimi, Farid Haddad, Mehdi Halim Hadi, Naman Hadi, Ahmed Hajeri, Taheya Halim, Youssef Hoyek, Hayv Kahraman, Amal Kenawy, Mahmoud Khaled, Majida Khattari, Mehdi-Georges Lahlou, Hussein Madi, Maroulla, Fatima Mazmouz, Sami Mohamed, Mahmoud Moukhtar, Laila Muraywid, Youssef Nabil, Malik Nejmi, Marwan Obeid, Omar Onsi, Mohamad Racim, Adli Rizkallah, Georges Hanna Sabbagh, Muhamad Sabri, Mahmoud Saïd, Khalil Saleeby, Mourad Salem, Mona Saudi, Ihab Shaker, Shawki Youssef , Habib Srour, Salah Taher, Mona Trad Dabaji, Van Léo, Ramsès Younan, Khalil Zgueïb, Lamia Ziadé, Hani Zurob.
23-31 mars 2012, Cinéma du Réel/Centre Pompidou, Paris
Depuis 2005, Lowave suit l’actualité artistique du Maghreb et du Moyen Orient à travers les auteurs de sa collection Resistance[s] et les nombreuses programmations et expositions qui y ont été associées. De l’Europe aux États-Unis, en passant par l’Afrique et l’Asie, ces images ont interpellé, marqué, questionné les publics, en donnant à voir d’autres réalités que celles proposées par les médias conventionnels.
Elles ont également démontré l’existence d’une scène artistique vivante, résolument moderne et engagée, attestant de la présence de forces subversives bien avant le printemps arabe. La programmation Rising Images
Curatrice : Silke Schmickl
Consultant : Ryan Kernoa
Artistes : Khaled Hafez / Ismaïl Bahri / Ala Eddine Slim / Zineb Sedira / Jalal Toufic / Kaya Behkalam / Waheeda Mallulah / Halida Boughriet / Basma Alsharif / Morteza Ahmadvand / Nassim Amaouche / Taysir Batniji / Al Fadhil / Larissa Sansour / Laila Hotait / Waël Noureddine / Erkan Özgen / artistes du projet Field Statements
The objective of an artist residency in Jijel (Eastern Algeria) in which I took part not too long ago, was first to collect texts on the notion of guilt and to transcribe them in red ink on the surface of a male and female back, meaning two different entities. The intention was to leave a space to speak, to write, somehow, in the form of a quest for redemption, but also towards human existence, its doubts and fears, or to rethink a collective responsibility.
Reflections around this question of guilt have helped me to collect testimonies by artists, playwrights, directors, slammers and poets. In Jijel, I photographed these actors with the help of Mustapha Ghedjati who worked on the calligraphy on the surface of the backs of the actors.
The photos were taken in many different places, including at the edge of the sea, as a purification to wash away the evils of the world. But my choice of photos here is this diptych in which the individuals have their bodies washed by a slight movement of the water, lapping over their nude backs, the ink slowly erasing. The rhyme on the man’s back is more dense than the one on the woman’s. Some changes of color allow for a unification of these two different worlds. The sepia harmonizes both and takes over their reality. This photographic diptych, which is now part of the MAC/VAL collection (located in the Paris commune of Vitry-sur-Seine), is printed on dibond bronze, which again modifies the photographic effect.
Artists have traditionally produced works intimately linked to our collective history. Some of these works were intended to remind viewers of the important role played by those who fought for freedom–this is especially true for those of us who are both French and Algerian. I want my work to be both incisive and engaging; as an artist, I feel that it is important to be a part of how audiences re-shape their memory as they readjust their opinions in light of new information about their history.
Paul Ricœur refers to this ambiguity of the concept of an oeuvre. An oeuvre, a work, is what we do, what we create and what we make of our lives … what we are. I just know that I have always wanted to work on reality, memory, man. Through art, I want to live my time, my presence. I have been making photographs for 10 years and I hope to make something universal. My multifaceted productions are marked by some violence, informed by my own story and those of others.
http://africasacountry.com/
Exposition
du 11 au 22 mars 2008
Artistes :
Halida Boughriet – Cyprien Chabert – Florence Chevallier – Cyprien Gaillard – Candida Höfer – Emmanuel Lagarrigue – Christof Migone – Leonid Tishkov – Boris Bendikov
Le rapport que les artistes présentés dans cette exposition entretiennent avec le monde contemporain tient à la singularité d’un regard porté sur l’ambiguïté des éléments de notre culture. Un caractère autour duquel s’organise un monde actuel qui se réclame platement de « l’ici et maintenant », c’est-à-dire d’une simultanéité visuelle et temporelle toujours plus exacerbée, dont le but vise à l’indistinction entre la réalité et la fiction. Les propositions artistiques mises en lumière par l’exposition « Revers du Réel » s’élaborent comme des éléments révélateurs de nos tendances aveugles en décidant d’explorer les confins de la perception. Une sélection d’univers artistiques singuliers est ainsi présentée à la galerie Michel Journiac, devenue, le temps de l’exposition, réceptacle de ces expérimentations opérées à partir du réel.
De la vidéo à l’installation sonore en passant par la photographie ou encore la gravure contemporaine, les œuvres se développent à partir d’un constat univoque : celui de l’exubérance du réel. Face à la contamination architecturale, aux pollutions visuelles, aux allergies sonores auxquelles nous avons été désensibilisés, ou encore à l’obstruction de l’horizon du paysage, les alternatives proposées par les artistes ne peuvent être que radicales.
Adoptant une attitude de retrait Candida Höfer, Florence Chevallier ou encore Emmanuel Lagarrigue proposent des œuvres nichées dans une sphère parallèle, comme pour mieux menacer la réalité et ses référents de basculer dans le monde de la fiction et le règne de l’imaginaire. Leur originalité tient ainsi à leur situation dans un paysage inédit, peuplé de formes et d’éléments en constante tension entre le familier et l’inconnu, le lumineux et la pénombre, la sérénité et l’inquiétude. Ces propositions inaugurent ainsi un lieu qui permet de se pencher sur une autre réalité temporelle et géographique, un lieu réinvesti par le politique. Aux antipodes de ces univers, Cyprien Gaillard ou encore Cyprien Chabert éprouvent et épuisent les images d’une architecture et d’une nature envahissantes. Constituant à la fois une menace directe pour leur environnement et pour elles-mêmes, ces œuvres définissent ainsi toute production comme un système éphémère, tendant à sa propre dégradation.
À travers ces œuvres, les artistes participent donc de la redéfinition d’un espace sensible par la réactivation d’éléments naturels tels que la lumière et les sons, mais surtout par la reconsidération perpétuelle de leurs pratiques artistiques.
Face à des œuvres qui refusent le hiératisme, chaque visiteur, par sa réception personnelle, construira alors sa propre compréhension des œuvres autour des références culturelles historiques, littéraires ou imaginaires qu’elles activent. Le choix des œuvres et de leur scénographie rend visible un ensemble de différentes expériences qui constitue une démultiplication des lieux du sensible.
Catalogue réalisé par David Hanriot-Colin et Milamem Abderamane-Dillah alias "Castor & Pollux", étudiants à l'ENSCI.
Préface de Paul Ardenne.
Textes des étudiants du Master STE promo 2007-2008.
http://www.
Centre de Création Industrielle, Centre Pompidou Les iIlluminés
La vidéo Les Illuminés date de 2004, année au cours de laquelle le port du voile et de la burqa dans les lieux publics faisait intensément débat en France. C’est dans le métro parisien, espace collectif et socialement mixte, que Halida Boughriet inscrit sa performance. Revêtue d’une burqa, elle parcourt le tapis roulant de la station Montparnasse. La force de la vidéo tient au placement de la caméra sous la burqa, derrière le grillage même qui permet à la femme de voir sans être vue. Une image très contrastée en noir et blanc, associée à un léger ralenti des mouvements et du son, oriente le regard vers ce que cette caméra subjective veut nous donner à voir : le regard de ceux qu’elle croise et le décalage culturel que ces regards indiquent. Cela conduit le spectateur à faire face, lui aussi, à ces regards sidérés – qui donnent son titre à la vidéo.
Halida Boughriet réussit à donner là, de manière inédite, une représentation «de l’intérieur» de la femme en burqa, alors même qu’elle n’est en général perçue que de l’extérieur, dans l’espace social ou dans sa représentation dans les médias.
Mais au-delà de l’instantanéité des réactions auxquelles on assiste, Les Illuminés interroge frontalement l’opposition qui peut exister entre deux cultures dans leur rapport au voile mais aussi au corps féminin. D’un côté, on expose les corps jusque dans les affiches des transports en commun ; de l’autre, on le cache aux regards en le recouvrant d’un voile noir. La burqa devient alors un symbole double et contradictoire. Elle représente dans ce contexte un enjeu différent pour chaque culture : érigée en symbole de l’oppression de la femme lors des débats en France, elle correspond pour certaines femmes qui la portent au respect d’une tradition.
Les Illuminés est aussi une mise en question de la liberté proclamée des citoyens au sein de l’espace public, liberté indiscutée en théorie, mais que Halida Boughriet confronte à une situation concrète et quotidienne.
Le dernier plan, le seul qui ne soit pas filmé en caméra subjective, livre la clef du dispositif en filmant la grande masse noire immobile sur laquelle les passants se sont retournés, souvent de façon appuyée. Contrastant avec la mobilité de la foule autour d’elle, la femme voilée prend alors une dimension sculpturale.
Louise Delbarre
Action 6' , Betacam numérique PAL, noir et blanc, son
Collection Centre Georges Pompidou, Paris (France)
Action est une vidéo en noir et blanc réalisée par Halida Boughriet, artiste française d’origine algérienne. Il s’agit d’une performance réalisée dans les rues de Paris, qui prend son origine à la fois dans certaines pratiques artistiques des années soixante-dix pour qui la ville – l’espace public– est un territoire à investir (André Cadéré, Les Levine, Valie Export, Daniel Buren etc.), mais aussi plus avant dans l’usage de la dérive pratiquée par les Situationnistes* dont elle serait une variation.
Le dispositif est simple. Il s’agit pour l’artiste de marcher dans la rue et d’établir – de provoquer - un contact avec les passants en les touchant avec la main. L’action est filmée par une caméra qui la suit à courte distance, dans une proximité qui peut rappeler l’urgence signifiée avec laquelle sont filmés certains reportages de télévision. On peut penser au début de la bande qu’il y a identité entre ce que filme la caméra et l’oeil de l’artiste dans la mesure où l’image a la mobilité du regard. Mais cette hypothèse se trouve contredite au plan suivant par l’entrée de l’artiste dans le champ de la caméra.
Il faut noter la radicalité du cadrage qui ne considère que les corps, en rupture avec la bonne pratique cinématographique. La caméra filme l’artiste de dos et ne montre pas les visages, sauf par accident. Tout se passe dans le déplacement et dans le geste. Il faut noter également – car ce sont déjà des signes- les différents rythmes mis en place à l’image : la mobilité heurtée du filmage, le pas presque dansé de l’artiste et le pas pressé des passants. Le son de la bande n’est pas le son du réel, mais une composition musicale électronique qui intervient en léger contrepoint avec l’action et ne cherche pas à être illustrative.
Le cadre de l’image est centré sur les tentatives de l’artiste pour établir le contact, dans l’attente et l’incertitude de ce qui peut advenir. Ce geste est loin d’être anodin ou simplement théâtral. Le toucher étant le seul de nos sens qui soit réflexif- on ne peut toucher sans être touché - cette action vise par conséquent à provoquer l’établissement d’un canal de communication entre l’artiste et le passant.
En opérant par là une transgression manifeste de l’interdit social du toucher - on ne touche que ses proches - Halida Boughriet rend manifeste par opposition la manière dont les préceptes sociaux sont incorporés, et indique par là la soumission du corps social aux règles générales.
Elle se situe de manière paradoxale entre la résistance et l’offensive en tentant de fissurer le masque social dans la rue, lieu par excellence de l’adhésion au collectif. Les réponses des passants à l’artiste sont éloquentes quant à la réalité des relations à l’autre dans les sociétés contemporaines : indifférence ou rejet, plus rarement ouverture et contact.
Ce que construit l’artiste en mettant en place cette situation, c’est le dépassement et la perturbation du système. Il s’agit par conséquent d’un geste politique assumé, à l’instar des situationnistes pour qui la pratique de la dérive visait à générer des situations permettant d’aller au-delà des chemins appris.
Etienne Sandrin, mai 2012
*Le situationnisme est un mouvement contestataire philosophique, esthétique et politique incarné par l’Internationale Situationniste, «plate-forme collective», fondée en 1957. Dans son document fondateur, «Rapport sur la construction de situations...», Guy Debord (1931-1994) exprime l’exigence de «changer le monde» et envisage le dépassement de toutes les formes artistiques par «un emploi unitaire de tous les moyens de bouleversement de la vie quotidienne».
* La dérive se définit comme une technique du «passage hâtif à travers des ambiances variées» (Guy Debord, 1956). Ce comportement expérimental lié aux conditions de la société urbaine vise à repenser les contraintes de la ville pour la réinventer. Il n’était pas question de plan de route ni même d’une promenade mais d’une façon d’évoluer dans la ville tout à fait nouvelle qui ne suivait aucun schéma préétabli. Ce n’était pas non plus un parcours purement aléatoire mais une forme de «hasard contrôlé», où le fait d’arpenter les rues durant de longues heures sans destination était une façon de provoquer les occasions de contacts avec de purs inconnus.
http://www.newmedia-art.org/
Modern and Contemporary African Art Exhibition at Dartmouth
Features Important Recent Acquisitions
Hanover, N.H.—December 10, 2015—The Hood Museum of Art, Dartmouth College, has long benefited from the insight and dedication of its curators of African art, including current curator Smooth Nzewi, and the winter exhibition Inventory: New Works and Conversations around African Art highlights the work they have done. In particular, it demonstrates a renewed and purpose-driven focus on collecting modern and contemporary
art in the African collection—works from African artists both in and beyond the continent, as well as non-African artists who address Africa in their practice. The exhibition, on view from January 16 through March 13, 2016, includes an array of paintings, photographs, sculptures, drawings, ceramics, and mixed media, all acquired in the last two years, by artists such as Ibrahim El Salahi, Lamidi Fakeye, Akin Fakeye, Owusu-Ankomah, Victor Ekpuk, Chike Obeagu, Halida Boughriet, and Eric Van Hove. Programming for the exhibition includes several winter-term gallery talks and guided tours—please see the museum’s website for more details.
“Concomitant with Dartmouth College’s emphasis on experiential learning, Inventory provides Hood audiences with a transformative encounter with works of art historical importance. They highlight historical legacies and contemporary conditions in and about Africa. At the same time, they are globally oriented and draw our attention very sensitively to pressing issues and challenges that we face in the world today,” says Curator of African Art Smooth Nzewi.
Shown together for the first time, the works in Inventory offer varied yet compelling insights into modern and contemporary African art from the 1960s to the present. In addition to providing an important art historical anchor, they explore wide-ranging issues and engender critical conversations about Africa and the world we live in. They are organized around four broad themes: “Tradition and Modern/Modernist Traditions,” “Contemporary Visions of a Continent,” “Historical Returns,” and “Diasporic Imagination.” Regarding the latter theme, for example, French-Algerian Halida News Release | Contact: Nils Nadeau, Head of Publishing and Communications | (603)646-2095 | nils.a.nadeau@dartmouth.edu
Inventory: New Works and Conversations around African Art
Boughriet’s photographs Diner des anonymes (pictured here) and Les enfants de la République (2014, both from the acclaimed Pandora photographic series) present remarkable insights into the plight of African and Islamic immigrants and their firstgeneration French children when faced with the challenges of belonging in contemporary Europe in the wake of Islamophobia and escalating far-right nationalism. These works and others in the exhibition are some of the attempts at filling crucial gaps in the African collection.
African art curators have long sought to develop a holistic representation of the arts of Africa and have placed their emphasis on things like masks and other kinds of ritual objects and works of material culture. The Hood’s present approach signals the museum’s intention to robustly engage with emerging discourses and narratives of the “global modern” and “global contemporary” in academia. While the Hood continues to collect tradition-based art forms today, it has also begun to conceive its methods of collecting more broadly, ultimately pursuing a richer understanding of Africa and its arts—historical, modern, and contemporary—across campus and in the wider community.
This exhibition was organized by the Hood Museum of Art and generously supported by
the William B. Jaffe and Evelyn A. Hall Fund.
Speaking up: a celebration of African contemporary art at Richard Taittinger Gallery
Art / 15 Jul 2015 / By Brook Mason
Both Nigerian British installation artist Yinka Shonibare and the Ghanaian El Anatsui have captured considerable global acclaim, while a wide range of lesser known contemporary African artists are just beginning to garner attention. Leading the way is Ugochukwu-Smooth C Nzewi, curator of African Art at the Dartmouth College Hood Museum of Art and co-curator of the 11th edition of the Dak’Art Biennale in Senegal. He's also responsible for the exhibition ‘Guess Who’s Coming to Dinner?' – a nod to the 1967 Katharine Hepburn and Sidney Poitier film – at the Lower East Side's Richard Taittinger Gallery. The show features 12 artists and photographers, focussing predominantly on those from Kenya, Ethiopia and Nigeria. 'Despite the fact that London, as well as New York, boasts specialty fairs, the art world has yet to fully grasp the diversity of the artistry on view,' says Nzewi. What's more, he isn't merely a curator and art historian – he's a practicing artist in his own right. All of the artists on show explore sensitive issues of race and marginalisation. Photographer Halida Boughriet examines the enduring isolation of Africans in Diner des anonymes, from her 'Pandora' series. Others, like Uche Uzorka, turn to collage, charcoal, paint and ink to reflect urban street culture. A wide number participated in the latest iteration of Senegal's Dak’Art Biennale and some, such as Boughriet, have seen their work showcased in the Centre Pompidou. The work of Ephrem Solomon Tegegn can also be found in the Saatchi Collection.'The show will further contribute to the groundswell of interest in these artists internationally,' concludes Richard Taittinger.
Pendant tout l’été, Halida Boughriet propose aux visiteurs du musée d’art contemporain du Val-de-Marne de venir à la rencontre des habitants de Saint-Denis qu’elle a filmés et photographiés dans le cadre d’une performance chorégraphiée. Sous l’intitulé « Corps de masse », l’exposition réunit des grands tirages photographiques et une vidéo.
Cette exposition fait écho à celle de Valérie Jouve, autre invitée du MAC VAL pendant l’été, avec pour dénominateur commun le sujet de la représentation par les médiums photo et vidéo.
« Corps de masse » est un projet né d’ateliers menés au Musée d’art et d’histoire de Saint-Denis, installé dans un ancien carmel. Halida Boughriet a filmé des habitants de la ville, familles, jeunes, groupes d’amis, invités à se rassembler, s’enlacer et faire corps devant la caméra, avant de se séparer lentement. Les scènes se déroulent dans les salles du musée, autrefois cellules des religieuses, espaces exigus, contraignant l’artiste à des cadrages serrés. Les corps unis, baignés d’une lumière naturelle, reprennent inconsciemment les postures des sujets des peintures classiques exposées. Le temps de la pose, ils s’abandonnent à des gestes d’amour, d’amitié, de fraternité, puis se détachent, glissent et s’isolent en silence. Seuls les froissements des tissus, les frottements au sol sont alors perceptibles. Instants fragiles, éphémères, ces rapprochements révèlent la nature des liens humains qui font la force de chacun. Les corps, les cheveux se mêlent, se fondent, puis se séparent dans un mouvement calme, apaisant. Lors de cette résidence, Halida Boughriet a réalisé une vidéo et une série de photographies aujourd’hui présentées au MAC VAL, au sein de l’actuelle exposition des œuvres de la collection consacrée à la peinture. En effet, le cadrage, la composition et les clairs obscurs des images de « Corps de masse » confèrent une densité picturale indéniable à cette série.
Avec une grande liberté, Halida Boughriet nous livre des scènes d’un genre nouveau, empreintes d’humanisme, de générosité, d’attention à l’autre, trait majeur de son travail.
Photographe, vidéaste, performeuse, Halida Boughriet ancre ses projets dans l’actualité du monde, pointant les conflits politiques, économiques, religieux et leurs conséquences sur les individus.
Le rapport à l’autre, l’échange, l’écoute, le regard sont omniprésents dans ses créations. Elle explore, interroge les relations humaines au sein d’une société multiculturelle, où l’exil, l’immigration, la richesse et la difficulté des différences sont abordés de manière récurrente. Le corps, toujours au cœur de son langage plastique, recouvre des dimensions esthétiques, sociales, culturelles.
http://www.macval.fr/francais/
Halida Boughriet
Les illuminés
Algérie / 2007 / 1’37
« Créer n’est pas communiquer, mais résister. »
Gilles Deleuze, Pourparlers
À l’occasion de la sortie du troisième volet de la collection DVD RESISTANCE[S], Lowave propose en avant-première une sélection de films et de vidéos d’artistes contemporains du Maghreb et du Moyen-Orient.
Intimes, poétiques ou documentaires, ces oeuvres complexes, nourries de différents registres artistiques et culturels, témoignent de la vitalité et de la diversité créatives dans ces régions.
Loin de toutes concessions aux stéréotypes ambiants, les auteurs explorent des questions existentielles, politiques ou esthétiques avec le souci d’ouvrir de nouvelles perspectives de narrations et de troubler les représentations servies par l’image monolithique et figée communément admise.
Le Salon de Montrouge est toujours l’opportunité de découvrir des jeunes artistes pas encore très connus, et, éventuellement de flairer quelques tendances (jusqu’au 1er juin). La déception vient en général d’esthétiques trop convenues, d’approches trop prévisibles, d’effets de mode peu créatifs.
Parmi les artistes qui m’ont frappé (et un tel billet peut difficilement être autre chose qu’une liste), j’en ai particulièrement aimé trois, dont je veux parler un peu plus en détail, avant d’en mentionner quelques autres et de faire l’éloge des deux sections annexes. Mathilde Roussel-Giraudy, qui se définit comme une paysanne normande à New York, montre des traces : les empreintes d’un homme aimé absent inscrites dans la crispation des mains sur un oreiller, les traces d’une grand-mère disparue dans des sculptures de ses mouchoirs brodés, et les mues de sa propre peau, de son propre jeune corps qui, un jour, témoigneront nostalgiquement de sa beauté passée. Ces moulages de son corps en papier de soie sont des sculptures légères, suspendues, flottant au vent, mobiles, dansantes, vivantes, joyeuses encore, des mues plutôt que des linceuls, même si j’ai aussitôt pensé aux corps en creux à Pompéi et à l’ombre des corps désintégrés par la bombe d’Hiroshima. Ce sont des anges gardiens. Si elle répète ces moulages chaque année, aujourd’hui belle, demain enceinte, après-demain flétrie, elle constituera ainsi une archive de son corps, un témoignage de sa vie, une inscription du temps dans la matière.
Claire Glorieux travaille sur le langage, parfois avec humour, parfois mélancoliquement et nous en démonte les mécanismes avec une fraîcheur et une intelligence qui captivent. Ce peut être la compilation des mots qui suivent le mot ‘mort’ dans des dictionnaires de toutes sorte, 40 fois, avec 40 locuteurs, 40 séquences vidéos, 40 dictionnaires, 40 définitions, dans un processus rituel immuable. Ce peut être la recension illustrée de la centaine de mots du vocabulaire d’une jeune femme autiste que l’artiste accompagne. La pièce la plus captivante joue sur la musicalité du langage et sa matière même, c’est une histoire de famille et de piano, dite dans une langue inconnue (hongrois ? une langue du Caucase ?) , en fait du français mis à l’envers, écrit puis lu ainsi en ânonnant, puis remis à l’endroit, gagnant son sens et perdant son ton, dit d’une voix hachée par la grand-mère de l’artiste et par claire glorieux elle-même, dans un tourbillon de sens, de sons, d’efforts de diction et de compréhension qui donne le tournis., alors qu’il est question de piano et de séduction, de musique et de sensations.
Halida Boughriet montre les photos de trois odalisques, vieilles femmes allongées sur leur lit dans des vêtements chamarrés, sous la lumière d’après-midi tamisée par les rideaux. Deux d’entre elles nous fixent, la troisième se détourne. Ce sont d’anciennes combattantes du FLN, et c’est un beau travail de mémoire. Sa vidéo Pearl montre son beau visage cadré très serré, le regard fixe et concentré, sans un cillement : de ses lèvres émerge, comme une naissance légère et pure, une petite perle, fruit de l’agression de la nacre, fruit d’une violence faite à sa chasteté.
Parmi les autres artistes remarqués au fil des allées, j’ai noté l’histoire familiale revisitée de Marcell Esterhazy, la fête foraine de Jeanne Moynot, les froides photographies sociales de Camille Roux, les flux d’images d’Anne Horel, la passion pour l’accident d’ Alexandre Gérard, les photos indécises de Viriya Chotpanyavisut, et les vues aériennes de Jérémie Lenoir. Ceci dit, je n’ai pas eu les mêmes coups de coeur que le jury, mais j’ai l’habitude.
Une salle est dédiée au projet sur la guerre de Jean-Yves Jouannais (mais j’aurai préféré une autre couverture du catalogue… ) qui accueille des artistes femmes sur ce même thème de la guerre : Faustine Cornette de Saint-Cyr a réalisé une très belle installation, brodant des messages de la BBC sans queue ni tête (Les sanglots longs de violons de l’automne..) sur des photos évanescentes des plages du débarquement et Hakima El Djoudi a installé une des armées de soldats en billets de banque sur un miroir cerné de sang rouge.
L’école invitée cette année est celle de la Photographie à Arles : j’y ai remarqué les déambulations berlinoises de Renaud Duval, séries de répétitions formelles, bâches, colonnes, vitres, carreaux , les animaux pansés de Julie Fischer, les fragments de corps de Pierre Toussaint et les travaux avec une pellicule périmée de Lilie Pinot. Mais j’en verrai davantage lors des rencontres d’Arles en juillet.
Exposition du 13 septembre 2012 au 26 janvier 2013
À l’occasion du cinquantenaire de l’indépendance de l’Algérie, l’Institut des Cultures d’Islam (ICI) a décidé de fêter à sa manière ce pays, si vibrant d’un passé lumineux et parfois tragique. Mais l’Algérie est aussi riche de son présent et de sa jeunesse, qui l’entraine avec vitalité et générosité vers un avenir que nous espérons tous serein et libéré des crispations identitaires. Cette remarque vaut d’ailleurs également pour notre propre pays, juché trop souvent du haut de ses certitudes, sur l’autre rive de la Méditerranée. Car une relation passionnelle, dérangeante et vivifiante relie la France à l’Algérie, chacune étant le miroir de l’autre. Ces deux pays frères, frères ennemis, frères de sang, vivent désormais leur histoire respective, deux histoires toujours communes, par dessus un passé colonial révolu. En même temps, loin des prises de positions officielles et des raisons d’état, le métissage des cultures continue son oeuvre. En France, toutes les grandes métropoles sont devenues des creusets dans lesquels les deuxièmes, troisièmes, quatrièmes générations issues de l’immigration algérienne viennent apporter leur flamme et leurs espoirs à une société en devenir.
“Dévoilez-vous !” Halida Boughriet, 2012
Affiche éditée par le 5ème bureau d’action psychologique de l’Armée française dans les années 50
À l’évidence, plus que le passé, au delà des anciennes incompréhensions, ce sont les questionnements respectifs face aux mutations du monde qui assemblent les deux populations. Ainsi, l’effervescence artistique de la scène contemporaine algérienne traverse les frontières hexagonales depuis de nombreuses années, et les passerelles culturelles toujours se construisent et se renouvellent. De même, on a pu voir à l’occasion de l’exposition Dégagements… Tunisie un an après présenté à l’Institut du Monde Arabe (IMA) du 17/01/2012 au 01/07/2012, comment la scène artistique tunisienne a pris part et perpétue la révolution de jasmin, qui a ébranlé toutes les structures de ce pays voisin de l’Algérie. Les lignes du front artistique bougent donc dans tout le Maghreb…
L’ICI est situé au coeur de la Goutte d’Or, quartier emblématique des mixités ethniques et culturelles dans le 18ème arrondissement de Paris. Dans sa programmation qui court jusqu’au 22 septembre, l’Institut des Cultures d’Islam a choisi de présenter des artistes des différentes disciplines artistiques – photographie, musique, théâtre, cinéma, bande dessinée – afin de donner à voir “le visage d’une Algérie inventive, dynamique et stimulante”.
“Emblématique de l’histoire complexe du rapport de la France à l’Algérie vue à travers l’imagerie populaire, [l’affiche ci-dessus] s’inscrit également dans la lignée de la photographie coloniale – rappelons que l’invention de la photographie est contemporaine de la prise d’Alger – pour laquelle le dévoilement de la femme est une préoccupation constante, comme si le voile représentait le symbole ultime d’un acte d’insoumission.”
Véronique Rieffel, commissaire de l’exposition 50 ans de réflexion.
L'Institut des Cultures d'Islam (ICI), qui dépend de la Mairie de Paris, se penche à son tour sur le Cinquantenaire de l'Indépendance de l'Algérie
L’Histoire algérienne au prisme des créateurs d’aujourd’hui, c’est aussi l’Histoire de l’immigration, l’Histoire racontée par les familles à de jeunes gens qui ont grandi en France. Ainsi la plasticienne Halida Boughriet qui propose dans les lieux, une exposition monographique titrée « 50 ans de réflexion ». La jeune femme s’est formée aux Beaux-Arts de Paris, puis à New-York mais la mémoire familiale continue à être un moteur de son travail.
“Mémoire dans l'oubli“ par Halida Boughriet
A l'Institut, elle propose une version contemporaine (et photographique) des Odalisques qu’aimaient représenter les peintres orientalistes du XIXème siècle. Chez Halida Boughriet, ce sont de vieilles femmes qui posent et se reposent sur un canapé. Au sous-entendu érotique est substitué une scène quotidienne, un moment d'humanité.
Dans la série « Territoire hybride », la photographe documente les "porches d'Alger", ces grandes entrées d'immeubles post-haussmanniens construits par des Français, pour des Français et que les Algérois ont intégrés dans leur patrimoine. Halida Boughriet les juxtapose avec l'entrée d’une HLM, le quotidien de beaucoup d’Algériens exilés au nord de la Méditerranée. "Mon travail aujourd’hui relève d’une certaine urgence, il y a des choses qui me bouleversent et j’ai envie de m’investir dans cette direction. Je pense que plus tard, je travaillerais plus sur la forme et le concept, mais en ce moment c’est un besoin de travailler comme ça."
Souvent réduits à une date, une année, ces « 50 ans d’Indépendance », c’est aussi une histoire en cours, une mémoire qui nourrit le présent et le travail des créateurs. Témoignages à l’I.C.I. jusqu’au 22 septembre.
OPENING: 09.06.2012, 7 pm. I EXHIBITION: 10.06. - 30.06 2012
How to tame ghosts...
An exhibition project featuring Halida Boughriet (FR/DZ) and Mudi Yahaya (NG)
SAVVY Contemporary Berlin
„History (with a capital H) ends where the histories of those peoples once reputed to be
without history come together. “ History is a highly functional fantasy of the West,
originating at precisely that time when it alone 'made' the history of the world.1
Edouard Glissant, The Quarrel with History – The Known, the Uncertain
To articulate what is past does not mean to recognize “how it really was.” It means to take
control of a memory, as it flashes in a moment of danger… The only writer of history with
the gift of setting alight the sparks of hope in the past, is the one who is convinced of this:
that not even the dead will be safe from the enemy, if he is victorious. And this enemy has
not ceased to be victorious.2
Walter Benjamin, On the Concept of History
It is common knowledge that history, as concrete as it may be portrayed in history books, and the privilege to write history is one of the most prestigious chalices, earned or seized by any victor or person in power. History thus must be seen and appreciated only through the prism of he/she who wrote it, as the facts in history are usually rather subjective than objective, and the definition of the “truth” in any historical context is to be treated with some caution. In its multi-dimensionality, it is this concoction of the real/truth, the fictitious, and the untold that makes history what it is… especially as it is the case that the silent voices in history are much louder than the voices, which have found a way into our ears today.
History is thus like a ghost that lingers, in undecidability, between the worlds of the living and the dead, between the darkness of night and the light of day, between the planets of truth and those of lies. Thus, to talk about history one has to research upon the shades between these aforementioned extremes. The crux of the matter is the hypothesis that this space between the extremes of a factual and non-factual history, i.e. this space occupied by untamed ghosts can most appropriately be occupied by using a medium more superior to language - which is art. In his Essay on the Origin of Language3, Jean-Jacques Rousseau writes „But the most powerful language is the one in which all is said without a word being uttered“. If one were to engross thoughts on this statement, one could easily suggest that artistic expression IS the language in which all is said without necessarily uttering words. This holds through at least for the artists Halida Boughriet (FR/DZ) and Mudi Yahaya (NG) who,willingly or unwillingly, recount the past and history’s trace to the present using photography as their main utensil. Their photography stands as a voice of the unspoken or the unuttered, as they do not seek to represent “historical facts” but dare to portray an alternative historical narrative. These artists succeed in occupying the space between the “factual” and the “nonfactual”, thereby being able to tame the ghost of history in that sphere. Theirs is not an articulation of “how it really was”, but taking control of and abstracting memory. It is this abstraction of history that lays the foundations for mythologies, which in turn are designed to become history. The exhibition How to tame ghosts…will feature Halida Boughriet’s series «MÉMOIRES DANS L’OUBLI» and Mudi Yahaya’s «Conrad’s Circus – For Crown & Country». While the protagonists and setting in «MÉMOIRES DANS L’OUBLI» could be a citation of figures and set-ups in the works of great painters like Gustave Courbet, they do in their own right convey a story of the cameo role, but also the backbone of each society. The melancholic expressions in their faces betray that they could be the mothers, sisters, wives of fallen heroes. With the series “Conrad’s Circus – For Crown & Country”, Yahaya situates his works in the postcolonial Nigerian era. But his spatio-temporal consciousness informs this series as a legitimate, though surreal depiction of what history is or could be. Through the fine collaging and manipulation of analogue and digital images, Yahaya seizes the privilege of the victor and constructs a memory of the unspoken. The three dots in How to tame ghosts… depict the intention of this project as a work-in-progress exhibition. It will develop as a project for all those who have the functional fantasy of making history, especially those once reputed to be without history. A project conceived by Bonaventure Soh Bejeng Ndikung (Savvy Contemporary) and Marc-André Schmachtel (Goethe Institut Lagos)£
http://www.savvy-contemporary.
October 24, 2012 by Tom Devriendt
show at the Islamic Cultures Institute in Paris until January, 50 Years of Reflection, is an exhibition of the work of French-Algerian artist Halida Boughriet. It is one of many recent installments in France commemorating Algeria’s half-century of independence. Boughriet lives and works in Paris, where she has made videos, created installations, and continues to broaden her photographic portfolio. Below are her 5 favorite photographs, and her comments on how they came into being.
Mémoires dans l’Oublie (Memories in Oblivion)
Photography often borrows its topics from painting, a tradition inherited from Gustave Courbet. The photo series ‘Memories in Oblivion’ (which was part of the ‘How to tame ghosts’ exhibition, curated by Bonaventure Soh Ndikung at SAVVY Contemporary gallery in Berlin earlier this year), are images of great historical figures seen through a reversed lens –one that takes ownership of the stigma attached to each of them. This aesthetic approach becomes a ritual and an act of portrayal. It is an approach that is critical of Orientalism, and inseparable from reality and its humanism — contrary to the Orientalist representations that didn’t see the human, and were mostly concerned with their own projections and lust.
‘Memories in Oblivion’, the first photo in the series (above), is still part of a work in progress. It is part of a series of portraits of widows who have suffered the violence of the war in Algeria. I was born and raised in France by my Algerian parents, and this period is an intrinsic part of my family’s history. These women in the portraits represent a collective memory: they are the last witnesses. However, when one evokes the war in Algeria, one never thinks about them, mainly because official history, nor popular imagination of the war includes them. However, these widows were very much part of that history, and that war: they have suffered, resisted, lost their husbands. I find them beautiful, regardless of their age, and I wanted, in my project, to help re-include them as a significant part of French-Algerian history in both official and popular imaginaries.
This series also relays the journeys made by these older men and women, rather than a static history in which they remain stuck. Their collective passage from one place to another resonates throughout this series of paintings.
Here, also, I wanted to use the colors within the image and transform them into the subject of the photographs, re-appropriating the surface of the image. Light is very important to my work in these portraits, though I am, of course, interested in the faces of the women and men — light and colour help draw attention to the depths of history written on their bodies, and the silences surrounding them. I have photographed all of them in the same position: lying on their side, with a sort of aura that falls on them in a relatively dark space. I am inspired here by the orientalist paintings of Ingres, Boucher and Fragonard. I love the contrast between the sensuality, the lasciviousness of their posture and the twilight appearance of the room. The halo reminds me of Bernini sculptures. But my work is a kind of reinterpretation of the ‘Great Masters’ of Europe who wrote our bodies into the ‘western’ imaginary; I work with Orientalism, and against it at the same time.
These photographs of retired Algerians, like the one below, were taken in French “Sonacotra” homes (homes for migrant workers, social residences, guest houses, hostels, shelters for asylum seekers, etc.). What the subjects in the photos have in common is that they’re all left to their own. They are the representatives of an era ending.
« A la frontière des genres » : paroles de femmes artistes
d’hier et d’aujourd’hui.
Ce soir, à 21h, vous pourrez assister à une soirée exceptionnelle « A la frontière des
genres ». C’est la deuxième année que cette soirée est proposée. Des réalisatrices qui explorent de nouveaux territoires sont présentes. L’Ina a ouvert ses portes au festival qui est allé voir des archives sur les femmes artistes (photographe, peintre …). Durant cette soirée, il y aura confrontation entre des archives (Niki de Saint Phalle, Orlan,
Annette Messager, Sonia Delaunay…) et des artistes contemporaines : Halida Boughriet et Régine Cirotteau. Cette dernière parlera des genres qu’elle explore à travers ses films
comme la bande-annonce de films imaginaires, la vidéo actualité, le clip ou encore la trilogie filmique avec installation environnementale. Elle parlera également d’autres genres cinématographiques comme le film d’horreur psychologique, le film scientifique ou le film expérimental et musical. Catherine Gonnard, une documentaliste qui a fait des recherches sur les femmes artistes pour l’exposition « elles@centrepompidou», sera également présente pour parler de son travail de recherche. La soirée commencera par les archives de l’Ina. Puis quatre films réalisés par Régine Cirotteau : Pathfinder (1999), Let There Be Light (2005), Too Many Secrets (2007), Le Laboratoire des fluides (2005). Suivront deux courts-métrages d’Halida Boughriet :Autoportrait (2007, 3’) et Boite à musique (2009, 5’) La soirée se termine par un débat avec les intervenantes.
Entretien avec Delphine Collet.
Magalie Carlier